Definito “l’eroe borghese” dal giornalista Corrado Stajano, Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, pagò con la vita il suo profondo senso di giustizia e di onestà, la sua dedizione al lavoro, allo Stato, al Paese. Rincasando la sera dell’11 luglio del 1979 dopo una piacevole serata tra amici, fu avvicinato da uno sconosciuto mandato da Sindona che gli esplose contro quattro colpi 357 magnum. Morì durante il tragitto nella corsa verso il Policlinico di Milano.
La vicenda
Nel 1973 le banche di Sindona registrano una crisi di liquidità e il 27 settembre del 1974 la BPI è costretta a dichiarare bancarotta, seguita dopo neanche un mese dalla FNB, la Franklin National Bank, la ventesima banca degli Stati Uniti, di cui Sindona aveva acquistato il pacchetto di controllo. Ci si ritrova di fronte al crack finanziario più grave nella storia degli USA fino a quel momento.
Erano state infatti effettuate operazioni tali che si era consumato il patrimonio e si era arrivati ad un deficit di 150 miliardi di lire.
A chiarire le cause e le responsabilità del disastro viene chiamato l’avvocato milanese nato a Ronco di Ghiffa, sul Lago Maggiore , Giorgio Ambrosoli, nominato commissario liquidatore dalla Banca d’Italia.
L’indagine di Ambrosoli
Nel corso delle sue indagini, Ambrosoli fa emergere gravi irregolarità di cui si è macchiata la Banca Privata Italiana nella persona di Sindona, le sue illecite attività finanziare, portando alla luce un quadro di intrecci del mondo della politica, della finanza, della massoneria e della criminalità organizzata italo-americana.
Scopre infatti il complicato gioco di scatole cinesi architettato da Sindona che, utilizzando come fondi personali i depositi bancari dei clienti della sua banca, aveva acquistato e finanziato società in tutto il mondo.
Nel frattempo Sindona, attraverso i suoi appoggi politici, tentava di salvare la BPI attraverso i suoi personali piani di salvataggio, secondo i quali avrebbe dovuto essere lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d’Italia, a sanare gli ingenti scoperti dell’istituto di credito.
Nonostante le molte pressioni e rischi, Ambrosoli confermò invece la necessità di liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del banchiere.
Minacce
Dopo vari tentativi di corruzione andati a vuoto, si passò a minacce esplicite verso Ambrosoli, con una serie di telefonate anonime. L’avvocato non si fece però intimidire e proseguì nella sua strada per determinare la responsabilità penale del banchiere siciliano.
Una strada che lo porterà alla morte l’11 luglio del 1979, a soli 46 anni, lasciando una moglie e tre figli.
Le condanne di Sindona
La mattina dell’11 luglio Ambrosoli aveva risposto alle domande dei legali americani di Sindona, che volevano dimostrare che i soldi spesi dal loro cliente per la FNB erano suoi e non sottratti dalla banca, ma l’avvocato era riuscito a controbattere alle loro false tesi.
Quella deposizione risulterà decisiva per l’accusa nel processo americano a Sindona.
Il 18 dicembre del 1980 il banchiere siciliano verrà infatti condannato a 25 anni di carcere per il fallimento della Franklin National Bank. Qualche anno più tardi subirà anche una condanna in Italia a 12 anni di prigione per frode e all’ergastolo con l’accusa di omicidio aggravato di Giorgio Ambrosoli.
Si scoprirà che i colpi che hanno ucciso l’avvocato milanese erano partiti dal malavitoso americano William Aricò, su incarico di Sindona.
L’autore delle telefonate minatorie sarà identificato solo molti anni dopo, grazie alle dichiarazioni di un pentito, in Giacomo Vitale, massone e ‘uomo d’onore’ arrivato da New York.
La fine di Sindona
Sindona morirà avvelenato da un caffè al cianuro di potassio mentre si trova nel supercarcere di Voghera, due giorni dopo la condanna all’ergastolo, il 20 marzo 1986. La sua morte sarà archiviata come suicidio, anche se un’ipotesi ritiene che l’avvelenamento fosse finalizzato ad ottenere l’estradizione negli States, che avevano un accordo con l’Italia legato alla sua sicurezza e incolumità.
Secondo altri sarebbe invece stato avvelenato per il timore che rivelasse segreti riguardanti rapporti tra politici italiani e Cosa Nostra e la loggia massonica P2, ma tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta.
L’eredità di Giorgio Ambrosoli
“(..)È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Ricordi i giorni dell’Unione Monarchica Italiana, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti?
Ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Qualunque cosa succede tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali abbiamo creduto(…)“, aveva scritto Ambrosoli in una lettera indirizzata alla moglie Anna Lori, il 25 febbraio del 1975.
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