Le recenti dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu suonano come una dichiarazione di guerra. Del resto, il primo che trarrebbe vantaggio da un governo d’emergenza sarebbe proprio lui. A differenza del passato, però, un sentimento diverso pervade gli animi degli oppositori dello Stato ebraico. Un impeto che potrebbe influire sull’epilogo della situazione. Persino stravolgerlo.
Premier israeliano investe sulla guerra?
Rafforzate le truppe al confine con Gaza. Chiuse le scuole del Centro-Sud, come ogni attività commerciale che non si trovi nel raggio di 200 metri da un rifugio antiaereo. Persino l’aeroporto di Eilat ha sospeso i voli, anche quelli interni. Attivato il coprifuoco. È guerra. Lo è e lo sarà, anche se ancora non si sa per quanto. Questo indipendentemente dal fatto che la comunità internazionale sia disposta ad ammetterlo, e quindi a chiamare la situazione con il giusto nome. In base alle dichiarazioni del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, Israele proseguirà l’offensiva finché non sarà “raggiunta la quiete completa”. Era dal 2014 che non si assisteva a un’escalation simile, quando i morti erano stati oltre 2000. Più precisamente dall’Operazione Margine di Protezione, condotta fra l’8 luglio al 26 agosto, al tempo in cui lo Stato ebraico aveva affrontato sul campo Hamas e il gruppo della Jihad islamica palestinese.
Cos’è cambiato?
Oggi si combatte ancora per lo stesso motivo. Eppure, qualcosa è cambiato: l’intenzione. Stavolta la guerra, che piaccia o no alla comunità internazionale, non è scoppiata per un attacco diretto a Gaza o ai territori palestinesi. Piuttosto, è nata in difesa della città di Gerusalemme occupata: la lotta per la Moschea di Al Aqsa si è trasformata nella Terza Intifada. Benché terrorizzate, le persone continuano a protestare ostentando le bandiere della Palestina e appiccando il fuoco alle stazioni della polizia israeliana. Da più parti, il mondo arabo chiede di resistere all’occupazione. E Gaza lo sta facendo. Non solo per la popolazione dell’enclave. Ma per tutti i palestinesi. Ecco la svolta. Proprio questo sentimento di unità, che scorre silenzioso in ogni parte della regione, è qualcosa che mancava da molti anni.
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Colpa del Premier israeliano?
A ben vedere, gli ingredienti per provocare la riapertura delle ostilità c’erano tutti. Bastava solo miscelarli con perizia. E in questo Israele è stato un maestro. Ma per capire perché stavolta non ci si trovi davanti al solito conflitto occorre risalire all’estate 2020. Più precisamente alla firma degli Accordi di Abramo, con i quali circa un anno fa si è celebrato il matrimonio, officiato dagli Stati Uniti, tra Israele e i regimi del Golfo. Ad ogni modo, il trattato che avrebbe portato alla normalizzazione dei rapporti delle monarchie del petrolio con lo Stato ebraico aveva avuto come ulteriore conseguenza quella di emarginare i palestinesi. Le sollevazioni cui assistiamo oggi sono la diretta conseguenza di quegli accordi e del sostegno incondizionato alla causa sionista da parte dell’amministrazione Trump-Biden. A ragione definita in questo modo, visto che non esistono differenze significative nella linea politica dei due presidenti.
Errore di calcolo
Proprio queste circostanze rendono evidente il fatto che la Palestina resti una questione centrale nell’intera regione. Oltre ad aver generato nella popolazione oppressa quel sentimento di unità di cui si discorreva. Dalla Siria alla Cisgiordania, dal Libano alla Giordania. Persino in Turchia, frotte di manifestanti si sono sollevate in favore del popolo palestinese. Per la prima volta dopo molto tempo. Tanto che ora i Paesi del Golfo osservano attoniti l’evoluzione degli eventi, appellandosi alla comunità internazionale che si nega. In questo contesto, né le monarchie del Golfo né Israele avevano previsto che Hamas avrebbe osato intervenire, lanciando i propri missili da Gaza. Il che si è rivelato un errore di calcolo fatale da parte dei sostenitori dello Stato di Israele.
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Uno pari, palla al centro
In effetti, Hamas ha colto l’occasione per dare sfoggio alla sua aumentata capacità bellica. Rispetto al 2014, il Movimento che controlla la Striscia ha lanciato molti più missili e molto più avanzati sotto il profilo tecnologico. Il tutto sulla scorta di un sentimento di vendetta più radicato di quanto avesse mostrato in precedenza. Di fatto, Hamas ha smentito la propaganda sionista degli ultimi anni, secondo la quale l’offensività del gruppo si sarebbe notevolmente ridimensionata dopo il confronto con Israele. Al contrario, la resistenza islamista è cresciuta. Non solo. Il movimento ha imparato dai propri errori, tanto da mettere in difficoltà la tanto amata difesa antimissile Iron Dome. Tatticamente, ciò significa una sconfitta per Israele. E un punto a favore degli islamisti. Se non altro del gruppo di Hamas, visto che Hezbollah difficilmente interverrà nella disputa.
Hezbollah: spettatore compiaciuto
Nonostante in un primo momento il lancio di tre missili dal Libano avesse suggerito l’intervento delle milizie sciite sostenute dall’Iran, l’ipotesi ha scarsa possibilità di realizzarsi. Il Libano ha altro di cui preoccuparsi al momento. A partire dall’inflazione galoppante e dal collasso della sua economia, che hanno devastato il Paese. La gente è in fila per il pane, e in queste circostanze l’ultimo dei pensieri è prendere parte a una guerra. Finanche venisse finanziata dall’Iran. In effetti, la stessa Resistenza a Gaza non dimostra di avere alcun bisogno di Hezbollah. Ragion per cui gli sciiti avranno l’occasione di seguire l’evolversi della situazione dal loro punto di vista privilegiato. Dato che è fuor di dubbio che siano interessati alla guerriglia contro il loro acerrimo nemico: Israele.
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Premier israeliano minaccia l’invasione
Con la sua offensiva in difesa di Gerusalemme, Hamas cerca di creare una nuova equazione, di stabilire nuove “regole di base”. Come a dire: ogni volta che ci saranno problemi nella Città Vecchia (e ce ne sono spesso), il gruppo islamista si sentirà parte in causa. Mentre i suoi razzi giungeranno puntuali da Gaza. Del resto, Hamas si è già presentato come il guardiano della Moschea di al-Aqsa, sul Monte del Tempio. Il terzo luogo più sacro per l’Islam. Dunque, l’emergenza che avrebbe dovuto favorire il Premier israeliano, consentendogli di mantenere il potere, gli si sta ritorcendo contro. Eppure, il governo contrattacca. Nei giorni scorsi, a seguito dell’incontro con i vertici della sicurezza del Paese, Netanyahu ha annunciato: “Non ci saranno indagini dopo questo. Fate quello che dovete fare“. Gaza dev’essere fermata e Israele è disposto a tutto pur di riuscirvi. Anche invadere la Striscia?
Un’invasione imminente?
In realtà, se avessero potuto lo avrebbero già fatto. Non tanto perché non dispongano delle capacità necessarie, anzi. È risaputo che le forze di sicurezza siano tra gli eserciti più potenti e meglio organizzati al mondo. Soprattutto perché l’esercito israeliano si compone per lo più di riservisti. Come ha spiegato Francesco Tosato, ricercatore al Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.), Israele “punta molto sui riservisti: molti riservisti operano nelle loro unità e ci si aspetta che siano chiamati in battaglia immediatamente e non dopo un periodo di organizzazione come spesso accade nelle altre Nazioni”. Oltretutto, l’avanzamento tecnologico e l’intelligence che vanta Israele in parte deriva dalla felice partnership militare con gli Usa. Quindi per quale motivo finora non hanno dato seguito alle parole?
Divide et impera
A questo punto, occorre fare un passo indietro. Storicamente, la dottrina militare di Israele si è sempre distinta per campagne militari di breve durata. Anche nell’ottica di contenerne i costi. Su questo, e su un principio caro già ai romani: dividi e conquista. In ragione di ciò, lo Stato ebraico ha confinato i palestinesi della Cisgiordania, così come ha fatto con Gaza. Allo stesso modo, ha isolato il Libano dal resto della regione. Ma ora tutti questi Paesi si sono sollevati insieme. Come aveva osservato l’esperto di storia militare Martin van Creveld: “La principale debolezza di Israele rimane la dimensione relativamente ridotta del Paese e la mancanza di ‘profondità strategica’: l’Iran, per esempio, è ottanta volte più grande di Israele”. Il che equivale a dire: Israele è una macchina da guerra, ma solo verso un nemico alla volta.
Premier israeliano: una via d’uscita
Pertanto, gli israeliani non hanno abbastanza forze da impiegare su tutti i fronti aperti contro i palestinesi e il mondo arabo. Ragion per cui Netanyahu vincerà solo se sarà in grado di appianare gli animi. Solo così potrà sedare le rivolte e cessare le ostilità che stanno provocando centinaia di vittime. Da entrambe le parti. Altrimenti, la guerra continuerà e non è dato sapere per quanto andrà avanti. Fino al punto in cui sarà vinta dallo schieramento che avrà dimostrato maggiori capacità di resistenza.
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